venerdì 22 maggio 2009

Progetti comuni v/s interessi privati


Si fa sempre molto presto a dire “Progetti comuni”, tanto si fa ancor prima a dimenticarsene. Ad ogni stimolo propositivo, trascinati spesso da un entusiasmo infantile che ormai non ci appartiene più, rispondiamo istintivamente con un’enfasi che ci impedisce di vedere la cruda verità che ci appartiene e che ci dice cinicamente che non abbiamo la volontà di portare avanti un programma d’insieme. Ci facciamo coinvolgere volentieri in prospettive sociali che possano fornire al nostro esclusivo egoismo quelle nuove opportunità che ci consentano di soddisfare le nostre mai sopite ambizioni professionali. Crediamo, almeno inizialmente, che forse questa sia la volta buona per poter dimostrare, a noi stessi ed ancor più agli altri, di essere in grado finalmente di dare prova delle nostre supposte qualità. Prove che non mancano, opportunamente, di presentarsi al cospetto della nostra presunzione e che già da subito stimola i nostri ipotetici neuroni a produrre, in una straordinaria abbondanza inutile, fantasiose ed inverosimili scuse che servono solo a giustificare le nostre patetiche e puerili inconcludenze. Generalizzando il nostro opportunismo sociale, motivato ogni volta nell’evidenziare le colpe di chi ha creduto in un anacronistico “Progetto comune”, numerose analogie politiche e culturali dovrebbero quanto meno far riflettere quanti, in apparenza volenterosi di collaborare con il prossimo, mantengono il solito atteggiamento attendista che hanno tutti i commensali affamati in attesa di consumare un pasto che sono comunque pronti a criticare. E non sia mai detto che chi ha cercato di unire in un impegno collettivo i vari interessi personali si alzi da tavola prima ancora di aver consumato per far notare agli avventori che non ci sarà nessuna abbuffata, se ognuno non produrrà il “sovrumano” sforzo di cucinare per se e per gli altri. Strali e maledizioni cadranno sullo sventurato “comunista” che impunemente si sarà permesso questo oltraggioso insulto! Pronto sarà il risentimento dell’intera tavolata, finalmente unita nei suoi intenti, nei confronti dell’avvilito cuoco nominato prontamente per l’occasione e che tutti aspettavano. Ognuno dei consumatori farà immediatamente constatare che il loro “indispensabile” contributo lo hanno tuttavia portato, sottolineando la loro totale disponibilità nel mettere al servizio del “Progetto culinario”, leggasi culturale, politico ed umanitario, le loro bocche, i loro denti, i loro insaziabili stomaci e, cosa di rilevanza assoluta, il loro preziosissimo tempo. Eh si, perché, come giustamente fanno presente al supposto e obbligato “Chef”, loro sono dei professionisti “seri” e non si sarebbero neppure seduti a tavola gratis se avessero saputo che avrebbero dovuto cucinare anche loro. Non è così che si porta avanti un “Progetto comune” e in una tavolata “comunista” che si rispetti si sa che c’è un cuoco comune e un infinità di voraci bocche critiche. Se poi a questo si aggiunge il fatto che, essendo il “cuoco” impossibilitato nel fornire il preteso pasto, quel “fascistaribellechenonvuolefarequellochetuttisiaspettano" si permetta anche di togliere i piatti da sotto il loro naso, privando ciascuno dei loro singoli interessi, allora il colmo è stato raggiunto e la sua condanna imminente. A nulla più varranno i romantici tentativi dell’illuso di far presente alla già disciolta “compagnia” che il prezzo di quel desiderato pranzo era troppo elevato per le sue miserevoli e precarie tasche. Anzi, ancor più dure e violente cadranno le sentenze di coloro che sono stati così impunemente disturbati dai loro sacri ed inviolabili interessi individuali. Se poi, in un ultimo caposaldo difensivo, lo stolto cuoco mancato si permettesse anche di far valenza sull’aspetto primario dell’amicizia, allora l’esecuzione sarà repentina e definitiva, giustamente, se non altro per l’evidente cattivo gusto di aver tentato di utilizzare dei valori morali per condividere uno stupido “Progetto comune” che nulla aveva a che vedere con ben più importanti interessi privati. Giustamente. Ormai bisogna adeguarsi alla realtà che ci circonda e se ogni prerogativa comune si è persa per lasciare il posto ad un becero egocentrismo economico, se anche le ideologie millenarie del socialismo non trovano più difensori incorruttibili, se altresì chi si ostina a parlare soltanto di comunismo poi cerca solo un beneficio personale che giustifichi il suo comportamento, se perfino l’impianto familiare va disgregandosi per essere sostituito da putridi interessi bancari, allora che valore può mai avere l’amicizia se non è supportata da un ritorno materiale? Che importanza dare ad un “Progetto comune” se non si ha l’opportunità di poterlo sfruttare a proprio vantaggio? A tutto c’è una risposta e chi volesse averla la potrà certamente ottenere dal più grande “Cuoco” che ad ognuno prepara e fa mangiare, indistintamente dal ruolo occupato, deliziosi ed avvelenati manicaretti personalizzati. Rivolgetevi a Silvio Berlusconi. Mangiare da soli o cucinare insieme? Voi quanta fame avete? Io? Io sono a dieta.

Maurizio Mura

domenica 17 maggio 2009

Testamento biologico? Solo viva la Libertà.


Più parole vengono accostate al termine generale di libertà più la stessa si comprime, oppressa dalla pesantezza logorroica di chi ne vuole sfruttare tutte le potenzialità, ogni volta che aggettivi, sostantivi e verbi la costringono in una dimensione individualista al servizio di discutibili interessi privati. A tal proposito prendere ad dimostrazione le motivazioni politiche, economiche e sociali potrebbe risultare semplicistico e populista, ma altresì inevitabile. Storicamente si può discendere a ritroso nel tempo fin quasi all’età della pietra per trovare molte tracce che indicano chiaramente che ogni tentativo dell’uomo di condurre in piena libertà la sua esistenza, è sempre stato ostacolato sia dai primi scaltri pensatori in erba che crearono vocaboli complessi per poter controllare la maggioranza degli australopitechi, sia dai moderni e illuminati filosofi che credettero si potesse stimolare il pensiero comune utilizzando metafore e paradossi per imbrigliare qualsiasi opportunità dell’uomo di poter essere veramente libero. Solo in natura l’essere umano può avere la giusta e libera dimensione, e solo considerandoci parte di essa ne potremmo apprezzare le qualità che tanto ricerchiamo nella complessità dei nostri pseudo ragionamenti. Ma forse è proprio la libertà che l’uomo rifugge, consapevole che è dai suoi desideri che trae l’energia vitale per continuare a considerarsi l’entità superiore che tutto possiede e ogni cosa controlla. E cosa deve assolutamente avere ben saldo nei suoi artigli ogni essere che si considera “Divino” ? Il potere di condizionare, organizzare e controllare l’autonomia dei viventi tutti. Dalle paure ancestrali dell’uomo fino alle sue superstizioni, dalle leggende mitologiche alle più inverosimili religioni, tutto è stato pianificato utilizzando ogni volta neologismi incomprensibili ai più che, proprio per questo, sono tutt’ora indiscutibilmente efficienti nel produrre l’effetto desiderato di controllo. Ecco che allora la semplice parola “Libertà” perde tutto il suo significato se ad essa non si accosta almeno un vocabolo di convenienza. Gli esempi a disposizione per riflettere sono molteplici, sempre ammesso che si voglia farlo e citarne alcuni, forse, può produrre quegli sforzi neuronali che hanno consentito di definirci presuntuosamente “sapienti”. Dalle leggi divine alle moderne leggi costituzionali è tutto un imperare improprio sull’utilizzo giusto e/o sbagliato delle più bizzarre Libertà. Prendiamo la famigerata e vituperata “Libertà di pensiero”: nelle presunte democrazie odierne questa è sancita dalla costituzione che regola, comunque, il pensiero comune così come succede in ogni dittatura, monarchia o altre forme di governo. Tutti però diranno che le regole sono state create per impedire a chiunque di violarle, costringendo l’uomo a non avere pensieri contrari alla libertà di pensiero. Oppure la stessa “Libertà politica”, regolamentata opportunamente per lasciare a tutti la “massima” sovranità di scegliere tra le fazioni che liberamente ci impongono le loro scelte. E poi la “Libertà di manifestare”, ma solo alle condizioni di orario, giorno, mese e percorso che liberamente sono stati scelti per tutelare la “libertà di tutti”. Così come viene giustamente tutelata la “Libertà di credo religioso”, sempre ammesso che non sia in contrasto con le religioni che lo Stato ove si risiede ritenga idonee ed ammissibili. E come ultima prova, ma non ultima “libertà condizionata”, l’indiscutibile “Libertà deontologica” che obbliga i professionisti del settore a tutta una serie di comportamenti che ne limitano e condizionano la libera scelta. A questo si aggiunga una singolare uniformità presuntuosa di tutti i “cultori” di credere che la giustificazione di questa prevaricante regolamentazione sia assolutamente necessaria affinché si svolga al meglio la professione scelta, e a tutela degli interessi dell’umanità tutta. Si è liberi di fare quello che si è scritto nelle regole. Anche l’ultima “Libertà di settore”, che fin’ora era stata risparmiata, oggi viene messa in discussione dagli organi legislativi di molte nazioni che pretendono di regolamentare, con la libera coscienza del pensiero di maggioranza politica, sociale e religiosa al servizio della deontologia professionale, l’ultima e, forse, l’unica libertà dell’uomo: la libertà di poter decidere se vivere o morire. E come in tutti i casi in cui il fine ultimo non sia l’uomo, è normale aspettarsi delle regole variabili a seconda degli schierati orientamenti di convenienza. Ma la libertà è solo “Libertà”. Non può essere scritta o dettata, giusta o sbagliata; non può essere volontaria o progettata, non può essere ammaestrata. Non può avere un giusto colore, uno stendardo, un movimento,un amore. Non deve essere tutelata, deve essere rispettata, condivisa, deve essere libera. Liberiamola allora.

Maurizio Mura

giovedì 14 maggio 2009

Il coraggio dell'emigrante


Emigrare oggi ha la stessa peculiare necessità che ha spinto i primati prima, l’australopiteco poi e, infine, l’homo sapiens-sapiens ai suoi albori, ad intraprendere lunghi e pericolosi viaggi verso l’ignoto, al solo scopo di cercare di sopravvivere in un pianeta ostile eppur rigoglioso di opportunità. Lasciato il primordiale paradiso del corno d’Africa per colonizzare ogni ambiente, l’infinita avventura dell’uomo non è che agli inizi. Stanziali o nomadi, conquistatori o diseredati, tutti siamo e saremo il risultato di una sfida alla natura che mai si concluderà. L’adattabilità della nostra specie si è evoluta con noi e ci ha portato nuove forme di sopravvivenza, dalle quali spremiamo ogni goccia vitale che ci consenta di progredire e di sperimentare ancora nuove alternative utili. Ma il progresso di tutti è stato ottenuto grazie al coraggio di pochi che hanno creduto nella loro forza istintiva di non lasciarsi sopraffare dagli elementi, siano questi ambientali, sociali o politici. Molti gli esempi storici che dimostrano la perseverante continuità degli esseri umani, ma non solo, a migrare verso terre sconosciute eppur sognate, tenebrose ed ospitali, assolate e malsane. Dalla cacciata di Eva dall’Eden agli antichi naviganti fenici, dall’esodo di Mosè ai colonizzatori greci e troiani, dagli esploratori romani agli avventurosi vichinghi e poi Gengis Khan e i saraceni, Cristoforo Colombo e gli spagnoli, Amerigo Vespucci e i portoghesi, gli inglesi, i nativi americani e gli statunitensi, gli Atzechi e il popolo dell’isola di Pasqua, fino ad arrivare al ventesimo secolo caratterizzato dalle migrazioni di una infinità di popoli sofferenti e privati nelle loro terre di ogni opportunità. Questi esseri umani, fatalmente svantaggiati per luogo di nascita, hanno il coraggio e la dignità di intraprendere una scelta che, inevitabilmente, lascia un segno di triste angoscia che schiaccia i loro cuori. Con occhi fissi guardano alla terra promessa con l'incerta speranza di un futuro certo. Viaggiano verso il presunto paradiso marciando serrati con ogni mezzo per non mancare al proprio appuntamento con la vita. E se poi i loro piedi sono stanchi e piagati, le vecchie ruote bucate e gli improvvisati canotti sgonfi e in balia delle onde, comunque non si arrendono e la loro opportunità se la vanno a prendere là dove sperano che sia.
Per questo voglio fare un reverente inchino ad una mia amica albanese, che chiamerò Brunilda, da prendere come uno dei tanti esempi nonché simbolo meraviglioso e tenace di un coraggio che ha nella sua forza una dignità da cui tutti dovremmo prendere esempio. Quando nel 2002, appena diciottenne, lasciò la sua famiglia a Tirana non poteva certo saperre cosa il futuro le stesse preparando e, nonostante la paura del viaggio che l’attendeva, il suo assoluto coraggio non la fece esitare. Partire soli per una nuova e sconosciuta meta non fornisce le garanzie che ogni genitore pretende dal proprio figlio prima di lasciarlo andare. Se poi pensiamo che Brunilda per costituzione fisica, pur essendo donna agli occhi del mondo, appare ancora adesso una pura adolescente, viene da chiedersi con quale stato d’animo l’abbiano lasciata sola a prendere il traghetto che l’avrebbe portata verso l’oscurità di una ipotetica fortuna. Facile immaginare le abbondanti calde lacrime familiari strisciare il viso dei suoi fratelli, di suo padre e di sua madre. Le stesse lacrime che avevano i nostri antenati di ogni tempo e che avranno i futuri sfortunati emigranti di ogni nazionalità. Ma Brunilda è forte, coraggiosa, determinata e la sua dignità zampilla vigorosa dai suoi occhi brillanti, perché lei ha avuto ragione delle sue scelte. Scelte che per definizione implicano una varietà di prospettive e che quando chiunque di noi si venisse a trovare costretto da eventi extra ordinari della vita ad emigrare, nessuno o quasi vorrebbe avere come alternative l’eventualità di una esistenza passata tra i marciapiedi del malaffare, la violenza degli istituti penitenziari, gli stenti di una vergognosa baraccopoli. Qualsiasi persona di ogni nazionalità, religione e cultura cerca di dare alle sue ambizioni esistenziali solo una valida certezza di poter sopravvivere con dignità. Per questo dovremmo onorare tutti quelli che come Brunilda, e sono tanti, hanno intrapreso una nuova avventura in una sconosciuta patria portando nel loro bagaglio solo la nostra stessa voglia di riuscire con forza e con la dignità di chi non vuole, non può e non deve arrendersi. Mai.

Maurizio Mura