giovedì 31 dicembre 2009

Il bello di ogni giorno


La sveglia non ha suonato. Pazienza. Anche se siamo in ritardo ormai non arriveremo più in tempo all’appuntamento con i nostri eterni impegni. E allora tanto vale crogiolarsi ancora un po’ rannicchiati nel tepore delle nostre materne lenzuola. Fuori piove, tira un forte vento e da qualche giorno fa molto freddo. Dall’esterno ci giungono i rumori frenetici della vita che beatamente ascoltiamo passivi e ci godiamo gli infiniti ultimi attimi del risveglio benedicendo l’esistenza che ci rende ancora protagonisti di un'altra opportunità. Oggi sarà comunque una bella giornata. Mentre aspettiamo che sia pronto l’immancabile caffè ci accorgiamo che anche il cellulare è spento e ci viene in mente che la sera prima non ci siamo ricordati di metterlo in carica. Poi, glorificando la nostra dimenticanza, sorridiamo perversi al pensiero di quanti ci abbiano insistentemente cercato. Lentamente e con un certo disorientamento cerchiamo il carica batterie che, come al solito, non riusciamo a trovare e che, guarda caso, è sempre nel solito posto. Infine, con una lenta e piacevole indolenza, decidiamo di procedere verso i soliti preparativi mattutini consapevoli che oggi è già una bella giornata. Così, pigramente, usciamo di casa. I primi passi nella selvaggia realtà della metropoli ci vedono subito impegnati nel dispensare sorrisi gratuiti a chiunque che, ovviamente mal compresi dal comune Homo Esauriticus,vengono immediatamente equivocati con il fine ultimo di provocare in noi una violenta reazione e che soprattutto ponga termine alle nostre buone intenzioni. Così, pensando di soddisfare la nostra sete di aggressività, ci invitano in ogni modo a sfogare i nostri istinti più animaleschi e a palesare alla comunità tutta il nostro condiviso disagio. Ma oggi è proprio una bella giornata. Il suono nevrastenico dei clacson, il rombo continuo di ogni genere di veicolo, le voci stridule dei pessimisti di natura e il cronico ritardo attendono solo di dare il giusto appiglio alle nostre frustrazioni esistenziali. Però oggi non vogliamo pensarci, oggi no. Con la dovuta serenità saliamo sul primo autobus che passa, anche lui in regolare ritardo, e nonostante non sia più l’ora di punta lo troviamo insolitamente pieno. Appena dentro ci accorgiamo immediatamente che l’aria che si respira è particolarmente nervosa, anche se per un lunghissimo attimo veniamo distratti dall’olezzo inconfondibile di uomo non lavato che invade le nostre narici. Pazienza continuiamo a ripeterci, tanto scendiamo tra poco, quand’ecco che alla nostra irresponsabile domanda, “ mi scusi, scende?”, detta al tizio davanti alla porta d’uscita, questi, giustamente seccato, ci risponde di farci gli affari nostri senza naturalmente dimenticare di apostrofarci con vari e coloriti turpiloqui. Ma oggi è sicuramente una bella giornata. Si aprono le porte e nello scendere il solito spiritoso che deve salire si frappone tra noi e la strada perché dice è nei suoi diritti salire sul mezzo pubblico prima di aver fatto scendere i passeggeri. Quindi, sempre con il nostro solito ed inadeguato sorriso, decidiamo che prima di andare in ufficio possiamo anche concederci il lusso prenderci un buon tramezzino e un bicchiere d’aranciata che rientra perfettamente nello spuntino di mezza mattina. E poi oggi sarà sicuramente una bella giornata. Entriamo in un bar portandoci appresso il nostro proverbiale buon umore e alla cassa una bionda e stagionata cassiera, non ritenendo opportuno ricambiare il nostro “buongiorno”, si limita a dirci il prezzo delle consumazioni senza neanche degnarci di uno sguardo. Il barista invece, pur osservandoci attentamente e chiaramente disprezzando il nostro immotivato sorriso, ci costringe a ripetere più volte la nostra ordinazione ed infine, invitandoci a stare calmi, si prodiga molto lentamente e con continui borbottii a servirci il nostro spuntino che già dall’aspetto non lascia presagire nulla di gradevole. Con una certa riluttanza addentiamo il nostro pasto che fin da subito il nostro palato ci comunica essere vecchio e stantio, né ci aiuta l’aranciata che dal colore giallino e privo delle desiderate bollicine tenta di stimolare il nostro nervosismo. Ma neanche questo scalfisce la nostra voglia di felicità, oggi è già una bella giornata. Il più è fatto e quindi decidiamo malvolentieri di recarci nel nostro angusto posto di lavoro. Adesso possiamo anche accendere quel fastidioso oggetto che ormai contraddistingue la nostra vita. Non facciamo neppure in tempo a trovare campo di ricezione che subito inizia a squillare e vibrare nervosamente. “Chi sarà?” ci chiediamo ma poi indifferenti rispondiamo al disturbatore di turno con la nostra solita pacatezza. Aldilà della linea riconosciamo istantaneamente il sibillino vociare della nostra adorata compagna che, senza darci l’occasione di rispondere nemmeno un cortese “buongiorno amore”, ci invade repentinamente di petulanti domande, accuse e richieste multiple. Ma noi, saggiamente, sappiamo che questa è una bella giornata. Limitando le nostre risposte a dei semplici “si tesoro” interrompiamo la conversazione consapevoli che l’aggressione continuerà nella serata non appena ci troveremo di fronte alla amata donna della nostra vita. Poi mettendo da parte inutili ed incompresi sentimentalismi avanziamo sicuri nel paradiso dei nostri opprimenti doveri. Varchiamo la porta dell’azienda che si degna di fornirci un indegno lavoro sempre ingenuamente sorridenti e senza abbandonare la speranza che ci alimenta. Però non facciamo neppure un passo nell’antro minaccioso dei nostri incarichi che una tempesta di improperi ci si scagliano addosso portati dai nostri lillipuziani superiori che tentano di compromettere la nostra incrollabile certezza. Ma noi siamo sicurissimi: nonostante tutto oggi è veramente una bella giornata. Così, tranquillamente beati, ci tuffiamo con la dovuta calma a svolgere le nostre mansioni con l’unica prerogativa essenziale di riconoscere la felicità laddove si nasconde. Non è certo un lavoro che ci soddisfa il nostro, né professionalmente né tantomeno sul profilo economico ma almeno ci dà la gioviale soddisfazione di sopravvivere di magre consolazioni. La vita ci sorride malgrado tutto e sebbene la società che ci avviluppa soffocandoci stia cercando di annullare il nostro spirito con continuità indefessa, oggi è giorno di busta paga e quindi avevamo ragione: oggi è una bella giornata. Il lavoro presto giunge al termine e i nostri sorrisi ormai non si contano più, allora prima di lasciare l’ufficio passiamo un attimo in amministrazione a prelevare il nostro, probabile, meritato stipendio. La segretaria generale dell’azienda ci accoglie con il solito cipiglio che ben conosciamo, caratterizzato com’è dal disprezzo che da sempre dimostra nei nostri confronti di precari sfaticati, e sarcastica ci porge il nostro miserevole bottino. Scorgiamo la cifra lentamente così come farebbe un giocatore di poker e sgomenti, ma sempre col sorriso sulle labbra, chiediamo le debite spiegazioni sul perché il nostro già magro stipendio si sia ridotto ulteriormente. Lei ci guarda nauseata e frettolosamente e con un tono che non ammette repliche ci comunica che in base alle nuove politiche del Welfare, le detrazioni a nostro carico sono aumentate per consentire alla Nazione di aiutare i più bisognosi. “Inaudito!”, pensiamo mentre mestamente ce ne torniamo a casa imprecando e bestemmiando. “I ricchi che tassano i poveri per aiutare i più bisognosi è una cosa che ci fa veramente incazzare!!” Questa inutile giornata di merda!

Maurizio Mura

lunedì 21 settembre 2009

Precari di un Dio minore


La storia continua: da Caino e Abele, attraversando la storia scritta dell’umanità per arrivare ai giorni nostri, è stato tutto un susseguirsi di preferenze convenienti soltanto verso quei figli che soddisfano le nostre astute aspettative. Ed ecco che, sfruttando appieno ciò che riteniamo utile, proseguiamo ancora a differenziarci in ogni ambito così da poterci permettere d’avere almeno un’illusione di appagamento. La crisi economica che sta investendo le presunte civiltà ormai globalizzate, pone in evidenza problematiche sociali di difficile risoluzione. Una di queste, di cui si fa un gran parlare attualmente, è il famigerato problema dei Precari. Ci si aspetterebbe, così come è logico, che la politica di ogni fazione si mettesse al lavoro per tentare di arginare un fenomeno produttivo che sta dilagando in ogni dove senza il benché minimo controllo. Certo è difficile credere che gli uomini preposti a trovare qualche soluzione a questa piaga sociale, possano e vogliano faticare a tale scopo. Il perché è presto detto: coloro che oggi appaiono indaffarati nella ricerca di un vaccino debellante sono, in gran parte, i responsabili di questa pandemia diffusa. I governi, le opposizioni e le varie sigle sindacali che negli anni hanno provocato questo stato di cose, oggi cavalcano l’onda populista facendoci credere di conoscere ed avere una magica cura che ci guarirà. Basterebbe ascoltarli o leggere le argomentazioni di questi faziosi personaggi per accorgersi che la loro strategia è priva del minimo senso della realtà. D’altronde gli stessi, dopo aver stipulato patti scellerati in ogni settore economico, non emergono certo nella volontà di rinunciare a quei profitti che “leggi ad gruppettum societarum” hanno consentito loro. Ad emblema di ciò è utile sapere che le società che si avvalgono di lavoratori Precari è democraticamente trasversale in tutte le fasce politiche, industriali e sindacali. In tutto questo l’informazione, sempre più schierata dalla parte delle sue convenienze, si è organizzata in modo da distribuire le sue verità giornalistiche che periodicamente i loro editori richiedono. Per questi ed altri motivi di parte in questi giorni si è finalmente deciso di dare spazio ai numerosi ed avvilenti problemi dei Precari. E qui l’angoscia è palesemente drammatica. Perché c’è precariato e precariato. L’apparente disponibilità dei mass media a trattare seriamente questa materia, in realtà è un truffaldino tentativo di oscurare la vera natura del problema. Coadiuvati dalle maggiori sigle sindacali che tutelano, forse, soltanto una minuscola parte dei precari peraltro riconducibili allo Stato, appare chiaro che non vi sia una decisa volontà a fare emergere il vero abisso ove risiedono il 75% dei lavoratori atipici in Italia. Il grosso di questi dipendenti di “serie B” è impegnato stabilmente, ma senza stabilità, nei tristemente famosi call center. Le differenze settoriali richieste e pretese dagli scaltri e politicizzati imprenditori baronali, hanno consentito il frazionamento dei Precari in varie tipologie proprio per avere una maggiore indipendenza decisionale e, quindi, piena garanzia che gli organi di controllo costituiti non possano, ma sempre più spesso non vogliano, controllare affatto. Tutto è stato pianificato affinché i Precari, sempre più sfruttati dai numerosi imprenditori senza scrupoli, siano impossibilitati ad azioni che tutelino la loro dignità. Il “divide et impera”, organizzato con cura dalla associazionismo fin troppo evidente tra imprenditori e sindacati, ha generato una giungla differenziata e fittissima in cui nessuno può districarsi così facilmente. È sicuramente giusto discutere dei Precari della scuola, della sanità e dei vari settori pubblici, ma le discussioni sono organizzate così abilmente da escludere tutti gli altri lavoratori transitori che pure sono una maggioranza inquietante. In più, la drammatica mancanza di ogni forma di tutela sta inevitabilmente spingendo tutti i Precari di serie”B” verso una lotta intestina tesa ad impedire quell’unità di intenti che permetterebbe loro quelle azioni legali e sindacali che sono di riferimento nei soli compartimenti pubblici e, parzialmente, nelle comunicazioni. Il sacrificio oscuro a cui si devono sottoporre i figli minori viene ancor più aggravato dalla situazione di abbandono totale da parte delle istituzioni che, con il loro occultamento premeditato, consentono speculazioni monetarie e umane a danno,fisico e morale oltre che monetario, dei più deboli. L’eco mediatico che, limitatamente, sta evidenziando le difficoltà di sopravvivere di circa due milioni e mezzo di Italiani è rivolto unicamente a quel 25% circa di figli privilegiati e per i restanti figli non rimane che avere pazienza e non perdere la speranza. Forse un giorno saremo anche noi figli di un Dio che non sia minore.
Maurizio Mura

venerdì 28 agosto 2009

Madonna che silenzio c'è stasera


“O tu vinci al totocalcio, o tu sposti una chiesa, o tu te ne vai in Perù.” Queste le drammatiche possibilità che, forse l’ultimo poeta della cinematografia italiana, continuava a ripetere in un suo film degli anni ’80, amaramente pregustando un futuro che ormai appartiene a tutti noi e che opprime ogni opportunità sociale ed ogni riconduzione umanitaria. La metafora che Francesco Nuti portò sullo schermo in quella che fu la sua prima opera da solista e che gli diede la spinta decisiva per farsi conoscere dal grande pubblico, aveva nella sceneggiatura, scritta dallo stesso Nuti e da Elvio Porta, l’angoscia tutt’ora attuale di chi avvertiva prima di molti la necessità di condividere con sincerità e sentimento, la voglia di combattere contro un male che nessun dottore o medicinale potrà mai curare: la solitudine. Il mondo di oggi, con tutte le sue pragmatiche tecnologie, rivolge le sue numerose ricerche in ogni ambito: medico, nucleare, alimentare, meccanico, militare ed estetico, spendendo i profitti dell’umanità per generare altri profitti ed ottenere complessi percorsi che invariabilmente riconducono l’uomo a vecchie e nuove solitudini. Anche la creazione dei nuovi sistemi di comunicazione, dalle agenzie matrimoniali ad ogni sorta di Facebook, hanno come loro scopi principali lo sfruttamento monetario del disagio sociale e l’opportunismo mediatico pubblicitario. Tutti rivolgono i loro famelici sguardi verso facili e convenienti relazioni d’amicizia, d’amore e, sempre più spesso, familiari, pur di poter avere a disposizione quei beni materiali che illudono possano portare un miglioramento sostanziale della nostra sempre più precaria esistenza. Qualcuno ancora tenta di osteggiare questo stato di cose e lotta affinché non prevalgano valori che facciano dell’umanità un becero mercato di sentimenti. Francesco Nuti in questo è stato un precursore attento e puntuale nel mettere in risalto ciò che oggi appare seriamente evidente. In tutti i suoi film emerge con prepotenza la necessità ed urgenza di prendere in attenta considerazione tutti i disturbi che questa meschina società sta costruendo con il suo qualunquismo sociale. Grazie anche al suo pensiero sarebbe facile capire a quali disagi possa portare la solitudine e la rinuncia di ogni prerogativa umanitaria e il mercato cinematografico, adeguandosi perfettamente a questa assurda società, ha contrastato e a volte impedito a tutti quegli artisti che, come Nuti, puntavano il dito contro ognuno di noi sottolineando l’assurdità egoistica che ci pervade. Però l’emarginazione che ci accompagna è sempre più alimentata da noi stessi che non vogliamo riconoscere il distacco progressivo dai sentimenti gratuiti. Siamo tutti pronti e vogliosi a denunciare l’abbandono di ogni animale, pianta, minerale, o di favolose quanto decrepite architetture, ma non ci accorgiamo che l’uomo è già stato lasciato a se stesso e che presto non ci sarà più spazio nei nostri interessi se non per qualcosa che ci riguarda direttamente. Quando saremo soli ci accorgeremo che qualcosa ci è sfuggito e ci ha depredato e non ci soddisferanno più le chimere dei vari reality-farsa e delle mille lotterie martellanti. La falsa ideologia che i neo poteri dittatoriali stanno subliminalmente inculcando nei resti del nostro convinto cervello, sta velocemente modificando le nostre ambizioni e speranze di umanità sociale. Lentamente ed inesorabilmente il nuovo credo, alimentato sempre più dai nostri continui egoismi, crea lotte senza fine tra gli esseri un tempo umani al fine di generare incondivisibili interessi che produrranno ulteriori egoismi. Questa dottrina, semplice ed enigmatica, è un attentato alla natura dell’uomo: con la solitudine ci dividono, con il denaro ci governano. E quando qualche combattente della filosofia, letteratura o della cinematografia tenta di segnalare questo stato di cose, il regime che ognuno di noi ha scelto andando a votare si adopera alacremente per ridicolizzare ed annientare quanti, come Francesco Nuti, hanno deciso di non far finta di niente. Per questo si è tentato di eliminare uno scomodo poeta che con gentilezza raccontava il dramma delle solitudini causate dal materialismo, imputandogli l’incomprensibilità delle sue sceneggiature, l’allungamento dei tempi di ripresa e, cosa inaccettabile, l’uso eccessivo di alcol anche in luoghi pubblici. In un mondo come questo, in un’Italia come questa, è veramente un miracolo che ci sia ancora qualcuno che, assecondando le sue stravaganze, riesce a farci capire che la direzione indicata negli ultimi decenni dai concetti del libero mercato è sicuramente quella che porterà il nostro corpo e la nostra mente in un oblio dorato dai beni di consumo e verso una diffidenza totalitaria che ci lascerà inesorabilmente soli. Caro Francesco, Madonna che silenzio c’è anche stasera.
Maurizio Mura

mercoledì 8 luglio 2009

Tutti i Michael Jackson del mondo


Strani animali gli esseri umani. Capaci di creare strabilianti miracoli di solidarietà umana e di inventarsi ciniche nefandezze di egoismo sociale. Il pietismo ipocrita che sta coinvolgendo tutti nel distribuire parole di cordoglio per la morte di un uomo, chiamato a caso Michael Jackson, stride dolorosamente con il ricordo passato di quelle stesse fauci parlanti che furono prodighe di crudeli ed affrettate condanne a morte pronunciate con la stessa attuale solennità di convenienza. Non c’è stupore nel valutare questi atavici comportamenti, ma solo l’amarezza nel dover certificare che sempre più spesso l’umanità, intesa come valore assoluto, viene sistematicamente disattesa in favore di ben più importanti valori di carattere squisitamente egoistico. Cosicché è normale per la massa informe di consumisti sociali disperarsi accoratamente per la morte di un uomo che produceva e distribuiva tutta una serie di emozioni a livello industriale, che ognuno ora pretende impropriamente di sfruttare. Ancor più scontato, ma spaventosamente reale, è rendersi conto che nessuno o quasi dei piagnucolanti amici, conoscenti o ammiratori abbia voluto, e non potuto, fare di più per aiutare un ragazzo come tanti che forse chiedeva solo maggior solidarietà, compagnia e affetto da quanti ora lo piangono solo per spremere ancora la sua luce riflessa. È un male millenario questo, che in società come quella in cui viviamo fa sempre più proseliti pronti a tutto pur di accaparrarsi un magico cimelio della “povera Star” di turno, morta prematuramente per le aspettative esistenziali dei suoi inconsolabili fan. D’altronde il ‘900 è pieno di casi emblematici che possono fornire una valida indicazione su come la spettacolarizzazione dell’uomo stia sistematicamente provocando una totale aridità dell’animo umano. Dall’abbandono opportunista e amorale di Cesare Pavese, al cinico pregiudizio superstizioso verso Mia Martini, saltellando qua e là tra quelle che furono le vite abbandonate a se stesse di Luigi Tenco, Jim Morrison, Syd Barrett, Kurt Cobain e Sid Vicious e molti altri, tutto è stato ed è tutt’ora un rincorrersi di false e speculatrici lacrime che hanno il solo scopo di condividere una vita spezzata di cui non si è mai avuto un interesse reale. È incredibile e insopportabile ascoltare le inutili e puerili frasi di quanti, solo oggi che un essere umano, famoso o no, si è spento, sono pronti ad offrirgli amore, solidarietà e presenza. È ipocrita e malvagio credere alla loro ritrovata considerazione e sensibilità nei confronti di un essere umano con evidenti problemi personali e sociali di cui tutti si sono presi gioco con i loro giudizi sciocchi e superficiali. Dov’erano la maggior parte dei suoi parenti, amici, conoscenti o semplici ammiratori quando c’era bisogno di loro? Cosa hanno fatto sostanzialmente per alleviare le enormi sofferenze di una persona apparentemente fortunata? Tutti spariscono quando si ha realmente bisogno e quello che fanno, solitamente, non è aiutare il prossimo, anzi, sono solo pronti a chiedere aiuto, ma nessuno di loro è disponibile a darlo. Si vive in una civiltà piena di rimorsi che continua ad alimentare false ideologie e situazioni meschine che creeranno nuovi rimorsi. L’impedimento egoistico a donare e l’ipocrisia con cui ci facciamo scudo, non impedirà comunque al nostro cuore di chiedersi se non si sarebbe potuto fare di più per il nostro amato padre, il nostro adorato figlio, il nostro grande amico. Ma ormai tutto è passato e non serve più alla nostra coscienza pronunciare frasi lamentose e menzognere verso colui che ormai non ci appartiene più e che non potrà ascoltarci. Strani animali gli esseri umani, avremmo potuto preoccuparci quando la vita ancora ci stava ascoltando, ora che la morte si è presentata, dovremmo prepararci al giusto ed assordante silenzio che meritiamo.

Maurizio Mura

lunedì 22 giugno 2009

Il prezzo dell'uomo


Di qualsiasi cosa abbia bisogno l’umanità non dovremmo preoccuparci più di tanto, la soluzione è chiara anche se non sempre alla portata di tutti, basta seguire le indicazioni e modalità riportate sul foglietto illustrativo ed attenerci ai consigli imposti dalle leggi del mercato. Un mercato che oggi non evoca più in nessuno gli odori e i sapori dei prodotti della terra, né tantomeno la periodica attesa stagionale dell’arrivo di desiderate primizie. Ogni cosa è subordinata al prezzo commerciale del solo prodotto che da sempre, ma in particolare negli ultimi anni, è al centro degli interessi materiali di tutti: l’essere umano. Finiti i tempi della filosofia del pensiero, delle costruzioni religiose e delle necessità ideologiche; esaurite presto le iniziative sociali, le scoperte scientifiche umanistiche e le invenzioni utili, tutti oggi rivolgono le loro attenzioni al profitto personale che potrà scaturire dalle nostre fittizie conoscenze. La famiglia non è più famiglia, se non riesce a garantire a tutti i componenti un tenore di vita che le indispensabili esigenze consumistiche indicano, richiedono e pretendono. I sentimenti più autentici trovano sempre più spesso attrazione solo nei confronti di chi riesce a dimostrare di avere quei connotati materialistici e superficiali richiesti dalle nostre invadenti insicurezze. L’amicizia è ormai relegata in pochi esemplari in via di estinzioni che si ostinano a cercare nei valori la giusta predisposizione, nonostante la realtà attuale indichi con cinica chiarezza che l’unico affetto che l’essere umano rispetta è quello che si può sfruttare in qualsiasi modo. Così la famiglia non è più “l’unico valore”, se non dispone di quei mezzi di consumo che genitori e figli pretendono; l’amore non è più “l’unica ricchezza”, se non riesce a soddisfare i numerosi sogni commerciali; l’amicizia non è più “un tesoro inestimabile”, se non può essere spremuta ai soli fini materialistici. Ogni valore umano, insomma, serve solo ad ottenere quei beni concreti indispensabili per poter avere una chiara e precisa valutazione delle persone che incroceranno il nostro percorso egoistico. Nelle infinite opportunità sociali a nostra disposizione non mettiamo più in campo le riconosciute qualità di ognuno, ma solo l’interessamento pragmatico dello sfruttamento sociale. D'altronde, dopo aver spremuto fino all’esaurimento ogni risorsa animale, vegetale e minerale, era scontato rivolgere le nostre mire predatorie direttamente contro noi stessi, rimasti ormai l’ultimo articolo commerciale di questo immenso mercato in cui siamo diventati contemporaneamente prodotto e consumo. La famiglia ha la parte più importante e si assume sempre più volentieri il ruolo di fabbrica di materiale umano destinato alla vendita; l’amore è sempre più un’agenzia pubblicitaria alla quale rivolgerci per indirizzare le giuste proposte mercantili; l’amicizia è ormai un’utopia spirituale in cui tuffarci ogni qual volta ci necessiti qualcosa che serva a farci ritenere fintamente amici. I nuovi sistemi di intrattenimento combattono la solitudine e ne generano altra in misura maggiore a quella in origine, la disumanizzazione concentra il nostro assoluto egoismo per farci pretendere l’altrui amicizia proprio quando i nostri bisogni materiali pressano da vicino la nostra coscienza che, ormai uniformata in tutti, ci fa credere che le ragioni di ognuno siano superiori alle logiche dei nostri opportuni amici stagionali. E’ sempre più un fiorire di famiglie d’occasione, amori con gli sconti e amicizie in liquidazione e, a voler ipotizzare il prezzo di ogni valore, si fa presto ad avere un listino delle varie tipologie merceologiche umane. Una sana famiglia non vale più di 10000 Euro, un vero amore non più di 5000, una sincera amicizia non più di 2000, arrotondando il tutto per eccesso. E’ tempo di risparmi e se saremo stati abbastanza oculati, potremo sempre approfittare dei saldi in liquidazione dell’articolo più richiesto: l’uomo.

Maurizio Mura

domenica 14 giugno 2009

Lo spirito sportivo delle Sinistre


“L’importante è partecipare”. Con questo soddisfacente epitaffio si concludono drammaticamente anche queste ultime elezioni Europee senza che nessuno dei pretendenti di sinistra ad una poltrona dell’Europarlamento, si possa ritenere particolarmente affaticato per lo sforzo profuso durante la scampagnata elettorale che li ha visti fieri partecipanti. Quando qualche mese fa si presentarono all’iscrizione degli ultimi giochi politici, l’impressione che tutti hanno avuto era quella di un gruppo mal assortito, fuori forma e con la perenne idiosincrasia al gioco di squadra. I singoli atleti, poi, mancavano di un capitano affidabile su cui fare riferimento e di un metodo di gioco che potesse portare dei risultati accettabili. Né si poteva contare sulla presenza del benché minimo fuoriclasse che potesse regalare quella fantasia e genialità tipica di chi ha sin dalla nascita una qualità evidente. La preparazione atletica si manifestava in tutta la sua approssimazione ma si cercava di sopperire tentando almeno, e giustamente, di ostacolare con ogni mezzo gli avversari i quali però, sin dall’inizio delle gare, si dimostrarono nell’insieme una squadra più competitiva e destinata ad una facile vittoria. Già ai nastri di partenza delle varie discipline Europee, Provinciali e Comunali, gli improvvisati campioni fecero tutta una serie di simposi a mezzo stampa per giustificare, con puerili motivazioni, le loro evidenti difficoltà di poter competere con forza e determinazione affinché si potesse portare in cascina anche solo una misera e unica medaglia. Così, prendendo come slogan ufficiale il pensiero decubertiano, si tuffarono nella mischia rugbistica con la veemenza di un bradipo e l’entusiasmo storico dei seguaci di Dostojwski. Nello stillicidio continuo che gara dopo gara li vedeva commiserevolmente perdenti, piano piano tutti i compassati ginnasti persero tutta la loro baldanza e fierezza e non gli rimase altro da fare che prostrarsi penosamente a piedi dei loro sostenitori chiedendo un applauso alla loro sportività con la consapevolezza di chi sa di non meritarlo. Alcuni tra i più delusi pensarono che fosse giusto tirar loro dei succulenti pomodori rossi, ma dopo aver osservato i loro grassi ventri molli decisero che sarebbe stato meglio farli ad insalata e placare l’amarezza che attanaglia ognuno dopo una cocente disfatta. A giochi ormai conclusi i tifosi più affezionati, che imperterriti avevano continuato ad incitarli, si aspettavano almeno un onesta analisi sulle evidenti responsabilità della loro inadeguatezza presuntuosa che li vede ogni volta sconfitti in qualsiasi competizione. Nessuno dei concorrenti però si sentiva in dovere di affrontare gli oneri né tantomeno di riconoscerli come tali, d'altronde non è richiesto dalla moralità comune che gli Dei, siano questi politici-religiosi o sportivi-televisivi, debbano alcuna spiegazione ai loro ammiratori, che invece hanno l’obbligo di garantire alle Divinità il loro appoggio incondizionato. E allora forza, applaudite tutti questi ingloriosi atleti cosicché lo Spirito Olimpico prosegua e non lasci rimpianti, perché lo sanno tutti: l’importante è partecipare.

Maurizio Mura

venerdì 5 giugno 2009

Il nome dell'Innominato


“Purché se ne parli.” Questa la frase che potrà identificare al meglio questo primo decennio del 2000 caratterizzato com’è, e come è stato, da ataviche previsioni di sciagure che puntualmente stimolano le superstizioni di ognuno cosicché si possano giustificare tutte le nefandezze di questa presunta società moderna. Dall’ Apocalisse di Giovanni alle Centurie di Nostradamus che ipotizzavano la fine dell’umanità come specie, fino alle Denunzie poetiche di Pier Paolo Pasolini per arrivare alle Denuncie penali e civili di Giovanni Falcone che prevedevano ed avvisavano il Mondo della fine dell’umanità come valore, tutto è trascorso senza che nessuno si sia reso conto che ogni profezia si sta progressivamente avverando, escludendo da questo qualsiasi bisogno di dare credito a tutta una serie di elucubrazioni che da sempre tentano di avvalorare le varie tesi magiche o religiose che siano. Magari si poteva dare maggiore importanza a riferimenti letterari e antropologici che ci appartengono e che, se presi nella giusta considerazione, forse sono ancora in grado di aiutare il genere umano a capire cosa si sta apprestando a capitarci. Il futuro che si sta profilando all’orizzonte è degno delle migliori Distopie di George Orwell e sfida le Visioni profetiche di Stanley Kubrick, il presente corre prepotentemente accanto e ci impedisce di vedere anche la più palese verità se non veniamo stimolati adeguatamente dagli organi preposti e i media, con gli annessi sistemi di controllo, violentano il nostro passato per adeguarci alle loro pretese di sfruttamento di ogni società. L’esigenza dell’uomo di narrare le proprie storie nasce con la nascita dell’uomo stesso. Abbiamo più bisogno di riconoscerci che di cibo e in questo l’evoluzione è progredita fino ad arrivare a quel venticello leggero di diffamazione e verità che nei millenni non ci ha mai abbandonato e che oggi domina le menti. Dall’eco spropositato di uno scandalo pubblico al pettegolezzo privato sul nostro vicino antipatico, è tutto un’associarsi e assoggettarsi velocemente per partecipare a questo assurdo torneo da cui nessuno vuole escludersi o può essere escluso. L’informazione intesa come diritto è ormai unicamente utilizzata a beneficio del profitto industriale come promotore di un supposto interesse sociale, comunemente detto gossip, che di socialmente interessante non ha nulla. Anche l’odierna libera informazione dedica circa il 70% della sua Libertà alla ricerca di notizie utili in cui potersi assolutamente riconoscere e non esiste giornale, pubblicazione, radio, televisione e lo stesso internet che possano sottrarsi a questo incantesimo magnetico del ritorno economico che avrà l’informazione dal pettegolezzo. Lo slogan che ci impongono è quanto di più terrificante l’uomo possa pianificare: più gossip è più libertà. Brrrrrr…! Questo è l’astuto messaggio subliminare che ascoltano i nostri stanchi cervelli per 24 ore al giorno e 7 giorni a settimana e a volte ci associamo al loro pensiero credendo veramente di averlo avuto noi e ci si ritrova a parlare continuamente, in ogni luogo, in qualsiasi situazione, anche nel sonno, dell’uomo più nominato d’Italia, convinti di essere liberi di poter esprimere la nostra opinione su di lui e che il nostro pensiero non si lascerà influenzare da nessuno che non la pensi come noi. L’originalità spesso ci difetta, ma dopo aver per 15 anni bestemmiato, maledetto, calunniato, amato, benedetto e ringraziato l’Innominabile Capo del Governo, anche Dante farebbe fatica. Un aiuto in tal proposito ce l’avrebbe potuto dare quell’alchimista d’arte di Oscar Wilde coniando per l’occasione un aforisma adeguato, ma sfortunatamente non potrà accontentarci visto che ha lasciato questo mondo pettegolo da oltre un secolo. Un suo pensiero però oggi dovrebbe essere di rifermento a quanti fanno dell’Innominato l’uomo più chiacchierato del Paese: bene o male, purché se ne parli. Se da una parte i sostenitori del premier sono giustificati perché garantiscono piena visibilità a Sua Inquietudine, così non è per la controparte che giornalmente, e con assoluta costanza temporale, decora buona parte dei suoi spazi di libera informazione con il nome dell’Innominato sempre messo in bell’evidenza. E non soddisfatti ne traggono anche motivo di giusto orgoglio dell’esser diventati la bandiera scandalistica che più si prodiga nel promuovere direttamente o indirettamente il nome e il cognome del suddetto. Molti, se non tutti gli informatori avversari, accampano delle ipotetiche ed indiscutibili motivazioni etiche e costituzionali per giustificare la loro coscienza deontologica nel sacro diritto di informare i cittadini sugli usi e costumi di una personalità politica controversa, fondata esclusivamente su capacità ammaliatrici e telegeniche. Chiunque si occupi anche minimamente di sociologia e comunicazione, politica e strategie elettorali, psicologia e profitto del marketing, dovrebbe sapere che per ottenere risultati certi si deve puntare con forza sulla qualità dei propri prodotti e sulla validità delle proprie idee, cosa questa che uomini politici, giornalisti o semplici opinionisti del mercato della frutta non hanno ben valutato, o non vogliono valutare, che il loro continuo messaggio fazioso, se pur a volte giusto, sta producendo gli stessi risultati negativi che ottennero le pubblicità comparative di qualche tempo fa. Perché dovrebbe essere ormai assodato che parlare bene o male dello stesso individuo si ottiene un unico drammatico risultato: quello di pubblicizzare un nome, l’Innominato, che nessuno ha più voglia di ascoltare o vedere. Parafrasando un antico luogo comune che trae spunto da preistoriche superstizioni e che, visti i tempi in cui viviamo, andrebbero valutate almeno con la giusta serenità e attenta valutazione di chi vuole avvertire che “ad invocar continuamente il demonio, lui arriva, porta via tutti, pure il vicario”. E come disse Eduardo De Filippo: “Non bisogna essere superstiziosi, perché porta male”, continuare a nominare ad libitum l’Innominato, porterà peggio.

Maurizio Mura

venerdì 22 maggio 2009

Progetti comuni v/s interessi privati


Si fa sempre molto presto a dire “Progetti comuni”, tanto si fa ancor prima a dimenticarsene. Ad ogni stimolo propositivo, trascinati spesso da un entusiasmo infantile che ormai non ci appartiene più, rispondiamo istintivamente con un’enfasi che ci impedisce di vedere la cruda verità che ci appartiene e che ci dice cinicamente che non abbiamo la volontà di portare avanti un programma d’insieme. Ci facciamo coinvolgere volentieri in prospettive sociali che possano fornire al nostro esclusivo egoismo quelle nuove opportunità che ci consentano di soddisfare le nostre mai sopite ambizioni professionali. Crediamo, almeno inizialmente, che forse questa sia la volta buona per poter dimostrare, a noi stessi ed ancor più agli altri, di essere in grado finalmente di dare prova delle nostre supposte qualità. Prove che non mancano, opportunamente, di presentarsi al cospetto della nostra presunzione e che già da subito stimola i nostri ipotetici neuroni a produrre, in una straordinaria abbondanza inutile, fantasiose ed inverosimili scuse che servono solo a giustificare le nostre patetiche e puerili inconcludenze. Generalizzando il nostro opportunismo sociale, motivato ogni volta nell’evidenziare le colpe di chi ha creduto in un anacronistico “Progetto comune”, numerose analogie politiche e culturali dovrebbero quanto meno far riflettere quanti, in apparenza volenterosi di collaborare con il prossimo, mantengono il solito atteggiamento attendista che hanno tutti i commensali affamati in attesa di consumare un pasto che sono comunque pronti a criticare. E non sia mai detto che chi ha cercato di unire in un impegno collettivo i vari interessi personali si alzi da tavola prima ancora di aver consumato per far notare agli avventori che non ci sarà nessuna abbuffata, se ognuno non produrrà il “sovrumano” sforzo di cucinare per se e per gli altri. Strali e maledizioni cadranno sullo sventurato “comunista” che impunemente si sarà permesso questo oltraggioso insulto! Pronto sarà il risentimento dell’intera tavolata, finalmente unita nei suoi intenti, nei confronti dell’avvilito cuoco nominato prontamente per l’occasione e che tutti aspettavano. Ognuno dei consumatori farà immediatamente constatare che il loro “indispensabile” contributo lo hanno tuttavia portato, sottolineando la loro totale disponibilità nel mettere al servizio del “Progetto culinario”, leggasi culturale, politico ed umanitario, le loro bocche, i loro denti, i loro insaziabili stomaci e, cosa di rilevanza assoluta, il loro preziosissimo tempo. Eh si, perché, come giustamente fanno presente al supposto e obbligato “Chef”, loro sono dei professionisti “seri” e non si sarebbero neppure seduti a tavola gratis se avessero saputo che avrebbero dovuto cucinare anche loro. Non è così che si porta avanti un “Progetto comune” e in una tavolata “comunista” che si rispetti si sa che c’è un cuoco comune e un infinità di voraci bocche critiche. Se poi a questo si aggiunge il fatto che, essendo il “cuoco” impossibilitato nel fornire il preteso pasto, quel “fascistaribellechenonvuolefarequellochetuttisiaspettano" si permetta anche di togliere i piatti da sotto il loro naso, privando ciascuno dei loro singoli interessi, allora il colmo è stato raggiunto e la sua condanna imminente. A nulla più varranno i romantici tentativi dell’illuso di far presente alla già disciolta “compagnia” che il prezzo di quel desiderato pranzo era troppo elevato per le sue miserevoli e precarie tasche. Anzi, ancor più dure e violente cadranno le sentenze di coloro che sono stati così impunemente disturbati dai loro sacri ed inviolabili interessi individuali. Se poi, in un ultimo caposaldo difensivo, lo stolto cuoco mancato si permettesse anche di far valenza sull’aspetto primario dell’amicizia, allora l’esecuzione sarà repentina e definitiva, giustamente, se non altro per l’evidente cattivo gusto di aver tentato di utilizzare dei valori morali per condividere uno stupido “Progetto comune” che nulla aveva a che vedere con ben più importanti interessi privati. Giustamente. Ormai bisogna adeguarsi alla realtà che ci circonda e se ogni prerogativa comune si è persa per lasciare il posto ad un becero egocentrismo economico, se anche le ideologie millenarie del socialismo non trovano più difensori incorruttibili, se altresì chi si ostina a parlare soltanto di comunismo poi cerca solo un beneficio personale che giustifichi il suo comportamento, se perfino l’impianto familiare va disgregandosi per essere sostituito da putridi interessi bancari, allora che valore può mai avere l’amicizia se non è supportata da un ritorno materiale? Che importanza dare ad un “Progetto comune” se non si ha l’opportunità di poterlo sfruttare a proprio vantaggio? A tutto c’è una risposta e chi volesse averla la potrà certamente ottenere dal più grande “Cuoco” che ad ognuno prepara e fa mangiare, indistintamente dal ruolo occupato, deliziosi ed avvelenati manicaretti personalizzati. Rivolgetevi a Silvio Berlusconi. Mangiare da soli o cucinare insieme? Voi quanta fame avete? Io? Io sono a dieta.

Maurizio Mura

domenica 17 maggio 2009

Testamento biologico? Solo viva la Libertà.


Più parole vengono accostate al termine generale di libertà più la stessa si comprime, oppressa dalla pesantezza logorroica di chi ne vuole sfruttare tutte le potenzialità, ogni volta che aggettivi, sostantivi e verbi la costringono in una dimensione individualista al servizio di discutibili interessi privati. A tal proposito prendere ad dimostrazione le motivazioni politiche, economiche e sociali potrebbe risultare semplicistico e populista, ma altresì inevitabile. Storicamente si può discendere a ritroso nel tempo fin quasi all’età della pietra per trovare molte tracce che indicano chiaramente che ogni tentativo dell’uomo di condurre in piena libertà la sua esistenza, è sempre stato ostacolato sia dai primi scaltri pensatori in erba che crearono vocaboli complessi per poter controllare la maggioranza degli australopitechi, sia dai moderni e illuminati filosofi che credettero si potesse stimolare il pensiero comune utilizzando metafore e paradossi per imbrigliare qualsiasi opportunità dell’uomo di poter essere veramente libero. Solo in natura l’essere umano può avere la giusta e libera dimensione, e solo considerandoci parte di essa ne potremmo apprezzare le qualità che tanto ricerchiamo nella complessità dei nostri pseudo ragionamenti. Ma forse è proprio la libertà che l’uomo rifugge, consapevole che è dai suoi desideri che trae l’energia vitale per continuare a considerarsi l’entità superiore che tutto possiede e ogni cosa controlla. E cosa deve assolutamente avere ben saldo nei suoi artigli ogni essere che si considera “Divino” ? Il potere di condizionare, organizzare e controllare l’autonomia dei viventi tutti. Dalle paure ancestrali dell’uomo fino alle sue superstizioni, dalle leggende mitologiche alle più inverosimili religioni, tutto è stato pianificato utilizzando ogni volta neologismi incomprensibili ai più che, proprio per questo, sono tutt’ora indiscutibilmente efficienti nel produrre l’effetto desiderato di controllo. Ecco che allora la semplice parola “Libertà” perde tutto il suo significato se ad essa non si accosta almeno un vocabolo di convenienza. Gli esempi a disposizione per riflettere sono molteplici, sempre ammesso che si voglia farlo e citarne alcuni, forse, può produrre quegli sforzi neuronali che hanno consentito di definirci presuntuosamente “sapienti”. Dalle leggi divine alle moderne leggi costituzionali è tutto un imperare improprio sull’utilizzo giusto e/o sbagliato delle più bizzarre Libertà. Prendiamo la famigerata e vituperata “Libertà di pensiero”: nelle presunte democrazie odierne questa è sancita dalla costituzione che regola, comunque, il pensiero comune così come succede in ogni dittatura, monarchia o altre forme di governo. Tutti però diranno che le regole sono state create per impedire a chiunque di violarle, costringendo l’uomo a non avere pensieri contrari alla libertà di pensiero. Oppure la stessa “Libertà politica”, regolamentata opportunamente per lasciare a tutti la “massima” sovranità di scegliere tra le fazioni che liberamente ci impongono le loro scelte. E poi la “Libertà di manifestare”, ma solo alle condizioni di orario, giorno, mese e percorso che liberamente sono stati scelti per tutelare la “libertà di tutti”. Così come viene giustamente tutelata la “Libertà di credo religioso”, sempre ammesso che non sia in contrasto con le religioni che lo Stato ove si risiede ritenga idonee ed ammissibili. E come ultima prova, ma non ultima “libertà condizionata”, l’indiscutibile “Libertà deontologica” che obbliga i professionisti del settore a tutta una serie di comportamenti che ne limitano e condizionano la libera scelta. A questo si aggiunga una singolare uniformità presuntuosa di tutti i “cultori” di credere che la giustificazione di questa prevaricante regolamentazione sia assolutamente necessaria affinché si svolga al meglio la professione scelta, e a tutela degli interessi dell’umanità tutta. Si è liberi di fare quello che si è scritto nelle regole. Anche l’ultima “Libertà di settore”, che fin’ora era stata risparmiata, oggi viene messa in discussione dagli organi legislativi di molte nazioni che pretendono di regolamentare, con la libera coscienza del pensiero di maggioranza politica, sociale e religiosa al servizio della deontologia professionale, l’ultima e, forse, l’unica libertà dell’uomo: la libertà di poter decidere se vivere o morire. E come in tutti i casi in cui il fine ultimo non sia l’uomo, è normale aspettarsi delle regole variabili a seconda degli schierati orientamenti di convenienza. Ma la libertà è solo “Libertà”. Non può essere scritta o dettata, giusta o sbagliata; non può essere volontaria o progettata, non può essere ammaestrata. Non può avere un giusto colore, uno stendardo, un movimento,un amore. Non deve essere tutelata, deve essere rispettata, condivisa, deve essere libera. Liberiamola allora.

Maurizio Mura

giovedì 14 maggio 2009

Il coraggio dell'emigrante


Emigrare oggi ha la stessa peculiare necessità che ha spinto i primati prima, l’australopiteco poi e, infine, l’homo sapiens-sapiens ai suoi albori, ad intraprendere lunghi e pericolosi viaggi verso l’ignoto, al solo scopo di cercare di sopravvivere in un pianeta ostile eppur rigoglioso di opportunità. Lasciato il primordiale paradiso del corno d’Africa per colonizzare ogni ambiente, l’infinita avventura dell’uomo non è che agli inizi. Stanziali o nomadi, conquistatori o diseredati, tutti siamo e saremo il risultato di una sfida alla natura che mai si concluderà. L’adattabilità della nostra specie si è evoluta con noi e ci ha portato nuove forme di sopravvivenza, dalle quali spremiamo ogni goccia vitale che ci consenta di progredire e di sperimentare ancora nuove alternative utili. Ma il progresso di tutti è stato ottenuto grazie al coraggio di pochi che hanno creduto nella loro forza istintiva di non lasciarsi sopraffare dagli elementi, siano questi ambientali, sociali o politici. Molti gli esempi storici che dimostrano la perseverante continuità degli esseri umani, ma non solo, a migrare verso terre sconosciute eppur sognate, tenebrose ed ospitali, assolate e malsane. Dalla cacciata di Eva dall’Eden agli antichi naviganti fenici, dall’esodo di Mosè ai colonizzatori greci e troiani, dagli esploratori romani agli avventurosi vichinghi e poi Gengis Khan e i saraceni, Cristoforo Colombo e gli spagnoli, Amerigo Vespucci e i portoghesi, gli inglesi, i nativi americani e gli statunitensi, gli Atzechi e il popolo dell’isola di Pasqua, fino ad arrivare al ventesimo secolo caratterizzato dalle migrazioni di una infinità di popoli sofferenti e privati nelle loro terre di ogni opportunità. Questi esseri umani, fatalmente svantaggiati per luogo di nascita, hanno il coraggio e la dignità di intraprendere una scelta che, inevitabilmente, lascia un segno di triste angoscia che schiaccia i loro cuori. Con occhi fissi guardano alla terra promessa con l'incerta speranza di un futuro certo. Viaggiano verso il presunto paradiso marciando serrati con ogni mezzo per non mancare al proprio appuntamento con la vita. E se poi i loro piedi sono stanchi e piagati, le vecchie ruote bucate e gli improvvisati canotti sgonfi e in balia delle onde, comunque non si arrendono e la loro opportunità se la vanno a prendere là dove sperano che sia.
Per questo voglio fare un reverente inchino ad una mia amica albanese, che chiamerò Brunilda, da prendere come uno dei tanti esempi nonché simbolo meraviglioso e tenace di un coraggio che ha nella sua forza una dignità da cui tutti dovremmo prendere esempio. Quando nel 2002, appena diciottenne, lasciò la sua famiglia a Tirana non poteva certo saperre cosa il futuro le stesse preparando e, nonostante la paura del viaggio che l’attendeva, il suo assoluto coraggio non la fece esitare. Partire soli per una nuova e sconosciuta meta non fornisce le garanzie che ogni genitore pretende dal proprio figlio prima di lasciarlo andare. Se poi pensiamo che Brunilda per costituzione fisica, pur essendo donna agli occhi del mondo, appare ancora adesso una pura adolescente, viene da chiedersi con quale stato d’animo l’abbiano lasciata sola a prendere il traghetto che l’avrebbe portata verso l’oscurità di una ipotetica fortuna. Facile immaginare le abbondanti calde lacrime familiari strisciare il viso dei suoi fratelli, di suo padre e di sua madre. Le stesse lacrime che avevano i nostri antenati di ogni tempo e che avranno i futuri sfortunati emigranti di ogni nazionalità. Ma Brunilda è forte, coraggiosa, determinata e la sua dignità zampilla vigorosa dai suoi occhi brillanti, perché lei ha avuto ragione delle sue scelte. Scelte che per definizione implicano una varietà di prospettive e che quando chiunque di noi si venisse a trovare costretto da eventi extra ordinari della vita ad emigrare, nessuno o quasi vorrebbe avere come alternative l’eventualità di una esistenza passata tra i marciapiedi del malaffare, la violenza degli istituti penitenziari, gli stenti di una vergognosa baraccopoli. Qualsiasi persona di ogni nazionalità, religione e cultura cerca di dare alle sue ambizioni esistenziali solo una valida certezza di poter sopravvivere con dignità. Per questo dovremmo onorare tutti quelli che come Brunilda, e sono tanti, hanno intrapreso una nuova avventura in una sconosciuta patria portando nel loro bagaglio solo la nostra stessa voglia di riuscire con forza e con la dignità di chi non vuole, non può e non deve arrendersi. Mai.

Maurizio Mura

sabato 25 aprile 2009

Malato terminale aspettando Godot


Siamo agli sgoccioli. Manca poco ormai. L’ingloriosa fine, annunciata da decenni, del teatro italiano, è una realtà drammaticamente irreversibile. A nulla sono valsi gli interventi d’urgenza di quelli che si ritengono i ‘luminari del palcoscenico’. Sono accorsi al capezzale del moribondo solo per avere certezza di trovare una loro traccia nel testamento e quindi dividersi la copiosa eredità. Ma è stato vano ogni tentativo di rianimare il paziente, il teatro italiano appunto, praticandogli endovena trasfusioni in forma liquida dei finanziamenti. Di quelle disciolte flebo, però, ne ha ricevuta solo una piccola dose del tutto insufficiente a salvarlo. Inutili poi, ed inutilizzabili tutte le manifestazioni di solidarietà dimostrata dagli appassionati e dai veri lavoratori del settore. Malato ormai da troppo tempo di opportunismo culturale, che ne ha via via indebolito l’organismo, continuamente infettato dai numerosi virus esterni provenienti dalle malsane terre della televisione, umiliato da innumerevoli metastasi tumorali che hanno trasformato i suoi spazi vitali in maleodoranti sale giochi, bingo e supermercati, abbandonato alle cure approssimative somministrate da scaltri autori senza scrupoli il cui unico interesse era, ed ancor più è l’immeritata ed onerosa parcella dovuta dei diritti d’autore. Nondimeno si può dire che i primari della produzione teatrale abbiano meno responsabilità per questo prossimo e colpevole decesso. Dimenticando volentieri gli antichi ideali e seppellendo la loro coscienza deontologica, producono e promuovono solo gli ormai mummificati testi del passato per lanciare in uno sterile tirocinio i loro protetti assistenti, anestesisti, infermieri e medici molto generici, che nonostante la loro presenza in sala operatoria non si discuta neanche, si guardano bene dall’operare un paziente di cui nulla conoscono e specialmente, che non vogliono conoscere.
Il nostro malato terminale rimane, a questo punto, fisso in sala operatoria. Cercando, sperando ed allo tempo stesso morendo in attesa di un mirabile ‘Godot’ che riesca a licenziare l’infinita schiera di parassiti e germi e che premurosamente, ma ancor più urgentemente, voglia trovare un vaccino alternativo che allo stato delle cose sembra impossibile. Già, perché l’imminenza della tragedia e la fatalità di una manchevole cura è stata determinata con una serie di analisi per nulla approfondite, richieste dagli stessi colpevoli primari. Alcuni volontari, eroici ed illusi al tempo stesso, continuano a vegliare il moribondo nel generoso tentativo di alleviare la continua sofferenza che lo avvicina sempre più alla fine. Onore a questi baldi incoscienti che rimangono gli ultimi ad amare veramente il teatro e che ogni giorno si prodigano per portare sul suo letto di morte una nuova speranza e iniezioni plurivitaminiche di nuove idee, nuovi testi, nuove promesse. Ma l’orgoglio della loro perseveranza rimane in sostanza un flebile palliativo, che nulla potrà contro le lobby degli intrecci economici e politici che restano saldamente nelle mani di voraci medici-produttori i quali continuano a somministrare al nostro amato paziente la loro cura velenosa, consapevoli che di questa egli perirà. E a noi atei, volontari per passione, non rimarrà che una patetica veglia di preghiera, affinché almeno la giustizia divina possa porre fine alle sue sofferenze. Perché le torture che continua a subire fanno male anche a chi lo ama. Il teatro sta morendo, lasciando in eredità un monito di preoccupazione per gli altri pazienti ricoverati nello stesso reparto e ci ha chiesto di fare in modo, prima che sia troppo tardi, che tutti sappiano che questi stessi medici stanno curando nei loro nosocomi-lager anche cinema, letteratura, pittura, scultura e tutte le forme di arte. L’irreversibile agonia del teatro sia di ammonimento per ciò che resta della moribonda cultura italiana.

Maurizio Mura

venerdì 17 aprile 2009

L’anacronistico ritorno ipocrita del neo ‘68ismo


C’è fermento nell’aria un po’ dovunque, in Italia e nel Mondo. Magari sarà anche questa volta soltanto aria fritta. Magari sarà solo un romantico rincorrersi di ciò che socialmente è stato. Magari sarà ancora una nuova strumentalizzazione politica o, molto più probabilmente, l’ennesima moda facinorosa che prende spunto dagli innumerevoli e mai risolti disagi sociali. D'altronde le elezioni politiche europee sono ormai alle porte e, visto l’evidente crisi d’identità e di credibilità delle sinistre ormai globalizzate, forse sperano con quest’ultimo colpo di coda che possa servire a ridare una dignità competente ed una coerenza storica che tenga finalmente conto delle prerogative umanitarie e sociali che caratterizzavano in origine la maggior parte delle ideologie pseudo illuministiche. L’abbandono progressivo del pensiero social-democratico dei nuovi politici trae oggi il suo spunto, malevolo ed epidemico, dall’inaffidabilità umana nel saper mantenere ed alimentare tematiche concettualmente indiscutibili. Non c’è da stupirsi quindi se questi neo movimenti di protesta, ormai unicamente settoriali, abbiano stancato la popolazione che anzi guarda sempre più con diffidenza a questo forzato ritorno del borghesismo rivoluzionario già certificato nel suo fallimento postumo ma incontrovertibile. I moti progressisti che si svilupparono nel lontano 1968, ciclicamente riprendono vigore basandosi opportunamente nel fomentare masse ancora informi di giovani facilmente direzionabili in quella sempre verde utopia di un Mondo migliore. Eppure, nonostante gli sforzi interessati delle parti politiche che tentano a più riprese di riorganizzarsi, i risultati rimangono sempre più modesti e ridimensionati nel pensiero costruttivo e nella forza numerica. La cultura, l’informazione e la campagna stampa faziosa per diritto, che fin dal dopo guerra sono state un baluardo su cui fondare e diffondere le motivazioni dottrinali, oggi, dopo 40 anni di esperienza ed altrettanti fallimenti, mancano di senso pratico e di una reale considerazione del presente. L’oscurantismo mediatico e partitocratico del passato non doveva e non voleva tenere conto di quanti, pochissimi in realtà, fossero realmente al corrente delle loro più meschine intenzioni. Ma oggi è quantomeno poco intelligente non riflettere sul fatto che ormai chiunque nel mondo è coscientemente al corrente che quegli stessi uomini, che in apparenza lottarono credendo nelle loro convinzioni, sono stati e sono ancora i principali responsabili dei disastri umanitari degli ultimi 30 anni. Attualmente i nomi di questi personaggi, ventenni circa nel decennio ‘68/’78, sono riportati in ogni testo, volume e giornale pubblicato finora; e poi Internet, con la sua rete informatica mondiale, ha definitivamente reso vano ogni tentativo degli stessi di nascondersi e di non farsi riconoscere. Da riconoscere invece che oggi come allora i segretari dei partiti di “movimento popolare” sanno come spronare gli interessati a “scendere in piazza”, ma forse non si sono ancora resi conto bene che “l’unione popolare” disgregandosi sta, in questo sì progressivamente, perdendo numericamente i pezzi; il che si traduce in un volume sempre più minore di cittadini coinvolti e ancor più esigui sono quelli che ci credono veramente. Ma, nonostante le penose spiegazioni da ogni parte che ci vedono o “influenzati mediaticamente” o “idioti deliberati”, come dare torto alle nuove generazioni di ventenni che guardano i loro rappresentanti ideologici, arricchiti e patetici, con occhi diffidenti e consapevoli dell’ipocrisia delle loro retoriche parole? E come convincere quarantenni e cinquantenni che l’uguaglianza sociale è ancora possibile ma di fatto irrealizzabile perché nessuno di questi esimi “pensatori” intende assolutamente rinunciare a quei privilegi che loro hanno preteso e determinato con leggi “ad personam superioris”? Difficile, se non impossibile, recuperare credibilità agli occhi di un’avanguardia popolar-operaia che ha potuto constatare drammaticamente le motivazioni reali che spingevano e spingono questi uomini a far scempio delle loro prerogative ancestrali. Moltitudini di questi benpensanti coinvolti nei dissesti fraudolenti dei sistemi Bancari, Assicurativi, Borsistici ed Industriali, se ne stanno ancora lì davanti ai nostri occhi a sviscerare tematiche sociali alle quali loro stessi non credono più. Ma con un ultima, disperata astuzia politica, vogliono nuovamente farci credere che il cambiamento è possibile e che, sebbene loro si siano lasciati divorare dalle loro mega ville sociali, dai loro stipendi collettivi ingiustificatamente milionari, dalle loro industrie di utilità sociale continuamente sovvenzionate dallo Stato, dagli affitti irrisori dei loro palazzi comuni mafiosamente auto assegnati, dalle continue raccomandazioni sociali dei loro inetti collaboratori e dalle loro riverenze servili ai multiproprietari proletari di ogni settore, se dimentichiamo i panfili da cui ci dirigono e ci lasciamo condurre al pascolo della piazza con manifestazioni popolari a tutela dei loro infiniti e volubili interessi, tutti potremmo avere l’opportunità di costruire quella giustizia ed equità sociale a cui loro si sottraggono in ogni modo.
C’è fermento nell’aria ma non lasciamoci impressionare,è solo un venticello leggero che molto presto si placherà.

Maurizio Mura

giovedì 2 aprile 2009

Essere o avere,questo è un problema



“AAA. Alto, biondo, occhi azzurri, fisico scultoreo, dentatura perfetta, capigliatura fluente, professionista affermato, benestante, villa di proprietà, automobile sportiva, vestiti sempre eleganti, abbronzato tutto l’anno, cercasi urgentemente per femmina con le stesse qualità”. Questo il testo recondito, ma non troppo, che sempre più spesso viene richiesto alle persone durante i sempre più difficili contatti umani. Ossia: “Dimmi cosa hai e ti dirò chi sei, ma soprattutto ti dirò se puoi frequentarmi”. La politica sociale organizzata e fomentata negli anni ’50 dopo la fine della seconda guerra mondiale, trova oggi il suo massimo splendore a favore di un becero consumismo orientato nell’educazione alienante di un estremo individualismo, che garantisca a tutti una piena e produttiva superficialità. Tramontati e disattesi antichi ideali ormai relegati nell’oblio dell’utopia, l’umanità tutta, se escludiamo i pochi ed ultimi romantici del pensiero, sta scivolando velocemente verso la più totale spersonalizzazione degli individui per consentire alla massa informe dei vari popoli di uniformarsi in un’unica e drammatica direttiva: avere. Prendendo spunto da un noto aforisma di Oscar Wilde che, non prevedendo le conseguenze dell’utilizzo improprio del suo pensiero, disse: “Nulla è più necessario del superfluo”, oggi siamo tutti in balia di un mostro pubblicitario e sadico che ci impone violentemente i suoi usi e costumi. Eppure, nonostante l’evidenza, pochi sanno riconoscere il problema come tale, anche perché ormai i nostri egoistici bisogni hanno decisamente preso il sopravvento sulla nostra capacità di riflettere. ‘Essere’ in quanto tale ha perso tutto il suo interesse originario, giacché il benessere del singolo è sempre più subordinato alle sue proprietà. Trascurabili e condizionati ogni virtù e pregio, se non sponsorizzati e accompagnati con l’ostentazione dei propri averi, ognuno tenta e spera di ottenere il massimo sfruttando al meglio ogni opportunità per la pochezza fatua e fugace di potersi godere un effimero guadagno.
E poco importa se non siamo amati e se la solitudine è diventata la peggiore e più diffusa malattia che l’essere umano ha coscientemente provocato. Possiamo anche fare a meno della nostra famiglia, dei nostri amici, della nostra e altrui solidarietà, se nel contempo si è accresciuto il lezzo pestilenziale del nostro conto in banca. E a nulla valgono gli innumerevoli e scontati alibi che ci costruiamo svuotandoci, di volta in volta, di ogni responsabilità, chiamando in causa ogni fragile influenza mediatica responsabile presunta della nostra corruzione. Tutto sembra ridursi in un semplice e drammatico paradosso della realtà: “eravamo ciò che ci hanno dato, siamo ciò che abbiamo e saremo quello che lasceremo in eredità”: ovunque dirigiamo il nostro pensiero, inevitabilmente ci troviamo a doverci confrontare con le sempre più pressanti esigenze della società che contestiamo e che stiamo contribuendo a costruire. Mattone su mattone, denaro su denaro, uomo su uomo, morti su morti, siamo responsabili della pesantezza del fardello consumistico che portiamo sempre più volentieri sulle nostre spalle e che continuerà, purtroppo per molto tempo ancora, a schiacciarci e a ridurci in consapevoli animali divoratori di se stessi. E come se questo non bastasse, ognuno di noi sta alacremente lavorando sulla propria coscienza affinché non si accorga dell’urgenza del problema, ed anzi sta giustificando e incoraggiando l’utilizzo di ogni mezzo possibile per sbranarci e consentirci di avere di più. Malgrado ciò abbiamo tutto e nulla ci manca in apparenza, ma il malessere che si sta impossessando prepotentemente della nostra cagionevole vita ancora non ci stimola a cambiare volontariamente la direttiva principale dei nostri sempre più scarsi e validi interessi. Ogni problema dell’uomo moderno riguarda i suoi averi e forse, quando si sarà stancato di essere ciò che ha, un giorno si riapproprierà della sua esistenza e sarà sereno e soddisfatto di quello che è. E un giorno, forse, gli annunci cambieranno: “AAA. Cercasi uomo”.

Maurizio Mura

mercoledì 25 marzo 2009

Elogio alla stupidità



E’ quasi passato un decennio dall’inizio del terzo millennio e a 2009 anni dalla morte di Cristo il tempo civile sembra essersi fermato nella preistoria antecedente la nascita del Nazareno. Non sono serviti all’uomo i primi “futuristi” del pensiero greco-romano che tentarono di illuminare il percorso intrapreso dai pochi filosofi che cercavano nell’intelletto una chiara ed indiscutibile riconduzione al Divino; né esito migliore hanno avuto gli scritti illuministici del ‘700, né le saggezze comuni tramandate ai posteri nel tentativo di regolamentare le coscienze del feroce animale chiamato “uomo”. La nostra evoluzione spirituale, forgiata nell’orrore e nel dolore della nostra storia, è bloccata in un tempo sconosciuto ed ancestrale che trattiene senza sforzi minimi i nostri passi verso il rispetto primario dei nostri, ancorché stupidi, simili. A nulla sono valse le informazioni avute negli ultimi due secoli di documentate scelleratezze umane in ogni ambito. L’inciviltà si nutre, sin dalla notte dei tempi, delle più meschine idiozie, sviluppate e continuamente alimentate proprio nei settori cardine delle mancate società civili. La stupidità del nostro finto stupore di fronte alle evidenti, ma mai riconosciute, responsabilità di perfidia sociale fanno di noi un mostro barbaro che combatte contro mulini a vento edificati e posti a simbolo della nostra presunta civile convivenza. “Convivenza”, ecco una parola ormai priva di qualsiasi riferimento o significato attendibile, che quasi sempre trova il suo compimento inutile nell’unione con un altro inaffidabile vocabolo: “civile”, termine relegato fin dalla sua nascita nell’oblio oscuro della retorica teorica. L’ipocrisia che l’umanità utilizza per gestire la sua immensa predisposizione alla stupidità sociale viene continuamente alimentata nei compartimenti di collegamento tra la morale comune e gli interessi privati, al solo scopo di deresponsabilizzare i singoli e colpevolizzare qualsiasi capro espiatorio disponibile nei paraggi. Chiunque può essere utilizzato a tale scopo perché l’unico requisito richiesto è che si assuma la grave colpa delle nostre irresponsabili inciviltà; in ogni dove dilaga l’arroganza nelle comunicazioni interpersonali condite, sempre più volentieri, da mal represse aggressività sociali ed indotte tolleranze culturali che attendono solo di poter sfociare, con tutta la loro naturalezza del primitivo istinto, in assurdi pretesti di incivile convivenza. L’evidente deterioramento dell’unione antropologica e l’abbandono progressivo di ogni velleità comunitaria, ha ormai determinato quale pericoloso percorso sia stato intrapreso dal “moderno” homo consumisticus. Con il tipico sguardo ebete perso nel vuoto di un becero egocentrismo, ci dirigiamo, convinti e claudicanti, verso l’inevitabile traguardo dell’assolutismo intollerante. L’evidente uniformità di comportamento antisociale si manifesta brutalmente in ogni campo e in tutte le latitudini, rendendo chiunque vittima e carnefice al di là di ogni considerazione di classe. L’angoscia che avvertiamo ogni qual volta i mezzi di informazione sottolineano la nostra ed altrui violenza, ci vede sempre ipocritamente oltraggiati nella nostra permalosità di non voler accettare il fatto compiuto che tutti percepiscono un’innata avversione nei confronti di ogni entità vivente. La diffidenza imperante di ogni diversità ha già coinvolto qualsiasi parte ed è drammaticamente quotidiano l’avverarsi di tragedie che ci vedono protagonisti nel bene o nel male. Abbiamo dimenticato il concetto di luogo sicuro grazie alla consapevolezza effettiva che la stupidità non ha bisogno di luoghi riconoscibili. Quindi ci impegniamo costantemente a garantire la nostra idiozia soprattutto quando si tratta di gestire con educazione ed umanità la convivenza sociale, sia che ci sia stata imposta o scelta dal nostro intollerabile destino. Non ci è richiesto, altresì, di utilizzare ogni grado intellettivo disponibile per cercare una duratura pace sociale, tutt’altro: il libero arbitrio di cui spesso abusiamo nel rapportarci con il prossimo garantisce almeno una sorta di varietà di attitudini malsane che ci consentono di non annoiarci. Ossia: preferiamo essere stupidi che annoiati. E allora viva gli stupidi, gloria agli idioti ed onore ai cretini. In famiglia, sul posto di lavoro, nelle istituzioni, nella cultura e nell’arte, nelle relazioni interpersonali e nelle forzate convivenze, è tutto un diffondersi di idiozie imperanti che trovano valide motivazioni solo nei compressi interessi personali. Interessi che questa presunta democrazia vuole e deve tutelare per poter gestire nel migliore dei modi lo sfruttamento che ne consegue. Se solo provassimo ad immaginare una vera società civile dovremmo anche considerare i vari settori che subirebbero un repentino fallimento. Milioni di posti di lavoro nell’avvocatura, magistratura, forze dell’ordine, assicurativo e bancario, legislativo e a tutela dei diritti e in molti altri ancora a rischio licenziamento perenne per mancanza di opportunità contrattuali. Ma il mondo, previdente e responsabile, non farà mai mancare la materia prima fonte di tanto benessere e, giustamente ipocrita, produrrà idioti sempre in maggiore quantità e qualità, così da garantirsi un futuro sicuro lontano da ogni intelligenza sociale. Evviva gli idioti, evviva noi.


Maurizio Mura

martedì 10 marzo 2009

“ Professione? Disoccupato da un momento all’altro. ”






“ Che lavoro fai? ” – ci chiedono i nostri amici e noi, chi dilungandosi in colorite ed irruente spiegazioni, chi con meste sintesi sconfortanti, rispondiamo – “ Il disoccupato da un momento all’altro. ” – Ci guardano divertiti ed inconsapevoli dei nostri drammi ed incalzandoci curiosi ci stimolano a proseguire – “ E che lavoro sarebbe? – domandano – O hai un impiego o non lo hai, semplice! ” – sentenziano sicuri delle loro convinzioni. E noi lì a tentare di spiegare che non è così semplice spiegare qualcosa che non avremmo dovuto spiegare, credo,…però almeno ci proviamo, sperando nella solidarietà dei nostri comuni affetti. Poi, con incedere stanco ed incerto, ci buttiamo nella mischia delle parole cercando almeno di trattenere nei nostri pensieri un valido filo conduttore. Preghiamo: – “ Il discorso è questo: – iniziamo dandoci un presunto contegno – da diverso tempo, ormai, il mio è stato quello che i benpensanti e i politici chiamano “lavoro atipico”…” “ Ah, ho capito! Il precario! ” – ci interrompono illusi dalla loro frettolosa traduzione. “…aspetta, no, non proprio. Ti dicevo che da sei, sette anni sono occupato fisso a tempo determinato come collaboratore coordinato continuativo che mi ha garantito una valida precarietà anche nella sicura certezza di un ruolo alternato di parasubordinato…”– “ Eh? ” – stupiti e sospettosi rimarcano – “…appunto. Nel senso che io un lavoro ce l’ho, o meglio ce l’avrei, perché mi alzo tutte le mattine per andarci, timbro il cartellino, rispetto gli orari e pago le tasse, però il mio è un lavoro flessibile…”– “ Cioè? ” – ci chiedono ormai sempre più confusi – “cioè, è un lavoro che richiede qualche sacrificio, con i tempi che corrono devo, anzi, è meglio per me piegarmi alle nuove esigenze del mercato, altrimenti rischio di spezzarmi.” – Ci fissano annoiati e indifferenti, ma non disdegnano di regalarci qualche altro momento di ascolto passivo, nonostante l’argomento non trovi in loro il minimo interesse. Così ci offrono l’ultima cortesia – “ Senti, io tra poco devo scappare, vorrei proprio ascoltarti, ma devi essere più chiaro e assolutamente sintetico. ” – “ Va bene – rispondiamo timorosi ed insicuri – ma certo, anzi scusami, vedrai, ti rubo soltanto un minuto. Stavo dicendo che tutto sommato io posso considerarmi un fortunato e devo ringraziare il cielo che mi concede ancora qualche opportunità, perché questo tipo di occupazione mi lascia un sacco di tempo libero da dedicare a me stesso, ai miei affetti, alle mie passioni e, se volessi, anche per cercarmi un altro lavoro. Ma io sto bene così, non voglio esagerare,che poi rischio di fare il passo più lungo della gamba, perché fare il “disoccupato da un momento all’altro” è un lavoro di enorme responsabilità che richiede abnegazione e spirito di sacrificio, senza che ti parli dello stress e della fatica che produce. Almeno, però, tutto è compensato dall’aspetto economico, che non sarà certo elevato, ma ti da l’opportunità di considerarti un privilegiato, se non altro sotto il profilo fiscale e poi vuoi mettere? È vero che per tipologia di contratto vengo licenziato a fine progetto, circa ogni due, tre giorni, ma non sai la soddisfazione che provo ad essere assunto di nuovo, sento la stessa felicità di chi riesce a trovare un posto fisso senza, però, che per loro ci siano dei privilegi. Insomma, per concludere, il mio è un lavoro che ti fa pensare, stimola l’iniziativa e ti da l’opportunità di capire il tuo lavoro e riconosce i tuoi meriti. Senti, sarò presuntuoso, ma per me tutti dovrebbero essere assunti come “disoccupati da un momento all’altro”, sono sicuro che ci sarebbe meno assenteismo, non trovi? ” – Non ci siamo resi conto, travolti dalla nostra sintesi, che i nostri cari se ne sono andati nel bel mezzo del nostro soliloquio e che, con squisita sensibilità, non hanno voluto interrompere, ma noi che li conosciamo e stimiamo sappiamo che ci capiscono, anche perché, guardando l’orologio, ci accorgiamo che è già tardi anche per noi e se c’è una cosa che un “disoccupato da un momento all’altro” non può assolutamente permettersi è di arrivare in ritardo. “Corro, forse ce la faccio”


Maurizio Mura

martedì 3 marzo 2009

La deriva intollerante dell’Arca umana







Romani. Milanesi o Lucani,Veneti,Calabresi,Friulani o Sardi,comunque tutti,all’occorrenza,Italiani.
Italiani o Albanesi,Polacchi o Croati,Moldavi,Russi,Portoghesi,Turchi,
o al limite sempre per convenienza,Europei.
Ma anche Africani,Arabi,Cinesi,Indiani,Sudamericani,Australiani,Giapponesi o Statunitensi,che nell’eventualità di un invasione Aliena,improvvisamente Terrestri. Anomalie:contrasti di guerra che uniscono ed alleanze di pace che dividono. I fatti di cronaca che ormai quotidianamente si susseguono sui sistemi mediatici italiani di qualsiasi fazione,portano sempre più alla ribalta l’interesse morboso di sottolineare non solo i fatti,ma le varie differenze antropologiche. Cosicché un furto non è più solo un reato se a commetterlo è uno straniero, e un omicidio non è solo un aberrazione esclusivamente umana se chi lo compie è un extracomunitario. La crisi sociale,economica e deontologica che sta attraversando l’editoria tutta,ha voglia e urgente bisogno di sensazionalismo,consapevole che l’informazione sola non basta e che la continua ricerca di macabri dettagli,alberga avido in ognuno di noi. Gli stimoli di tollerante intolleranza a cui siamo continuamente sottoposti dalla cinica esposizione di notizie,sta preparando un pericoloso terreno di sabbia mobili dalle quali presto verremo tutti risucchiati affondando insieme ai nostri consolidati luoghi comuni. Le mai dimenticate predisposizioni razziste risorgono alimentate di continuo dai mass-media e dai nostri insoddisfatti egoismi sociali e politici,che ne precludono ogni alternativa di pensiero. Il rispetto e la naturale accettazione delle varie e meravigliose diversità sono state trasformate in pericolose prospettive di invasione,dove l’agguato presunto contro i nostri privati interessi trae ogni volta validi e motivati pretesti al fine di poter giustificare ogni nostra possibile aggressione morale e purtroppo spesso fisica. L’atavica paura di ciò che non conosciamo si lascia volentieri influenzare da ogni notizia che giunge angosciosa alle nostre orecchie già predisposte all’autodifesa nei confronti di ogni straniero. Eppure non è passato così tanto tempo da farci dimenticare che proprio noi eravamo tutti stranieri sulla nostra stessa terra ostile e che immigrazione ed Italiani erano un concetto spesso associato al malaffare e forse,anche grazie all’intolleranza subita dai nostri avi,molti dei nostri genitori riuscirono a trasmetterci un educazione indirizzata al rispetto di ogni differenza razziale,culturale,sociale e politica.
Invece oggi ciò che più dovrebbe preoccuparci,è che proprio i nostri educatori,stimolati ed influenzati a dovere,hanno cambiato decisamente inclinazione ed hanno velocemente rispolverato antiche usanze intolleranti mai sopite del tutto. L’allarme razzismo sottovalutato che sta squillando incessantemente nelle nostre case,viene del tutto ignorato e sommerso da inutili e patetiche urla di un emergente ritorno alla difesa della razza. La cultura del rispetto della vita messa continuamente in discussione per far spazio ad individualismi di ogni genere. La propensione popolare a lasciarsi trascinare nel baratro dai titoli ad effetto,rischia di degenerare in un conflitto xenofobo senza precedenti, e a conferma di ciò non c’è bisogno di scomodare illustri sociologi o divi della psicologia,basta ascoltare i nostri familiari che, mangiando “cuscus”,bevendo “cocacola”,fumando “marlboro” sprofondati nella loro poltrona “ikea”,stanno aspettando il telegiornale. Ed ecco subito i titoli di testa,quelli che danno inizio agli sfoghi più beceri ed assurdi conditi da insulti,maledizioni varie contornate da “innocue” frasi di sterminio per l’eliminazione di ogni “pericolosa” diversità.
L’abbandono progressivo di tutti i popoli verso ogni forma comune di umanità,sta portando l’Arca dalle mille varietà di scimmie parlanti,contro pericolosi scogli e la già grave carenza di anziani timonieri,non ci offrirà valide alternative.
La deriva intollerante dell’uomo è pronta a riportare la scimmia al suo livello primitivo,lasciando in eredità ai futuri esseri solo un angosciante silenzio.


Maurizio Mura

mercoledì 25 febbraio 2009

Baracca e Burattini


“ Venghino, Siore e Siori. Venghino tutti all’ultimo, favoloso spettacolo della Compagnia dei burattini P.D.. I nostri Pupazzi Dinamici vi faranno divertire con le loro capriole politiche, con tantissimi scherzi istituzionali, con la comicità dei loro buffi litigi, con la bravura interpretativa della loro recitazione d’interesse sociale e per il gran finale pirotecnico di patetiche esplosioni di retorica, in un meraviglioso scenario di ipocrisie umane mai prodotto prima. Forza Siori, che andiamo a chiudere. Non perdetevi l’ultima opportunità di vedere da vicino tutti i protagonisti del fantasmagorico mondo del P.D.. Venite, venite numerosi a salutare i vostri Pupazzi Dinamici, loro vi accoglieranno con le dovute e distaccate maniere e, in vista delle prossime elezioni europee, forse si sacrificheranno per voi rimettendo in scena la stessa pantomima che li ha caratterizzati in questi anni di luminosi successi bui. Fate presto, Siori, e i nostri incredibili Pupazzi Dinamici vi accoglieranno tragicamente festosi con i loro canti stonati, privi di qualsiasi riferimento armonico che vi possa garantire la minima solidità umana. Chiamate i vostri parenti e amici e fate partecipare anche loro alla definitiva consacrazione del fallimento della Compagnia amatoriale del P.D., I Pupazzi Dinamici sono già in movimento per ricreare quella magica atmosfera di inutilità, che li ha contraddistinti in questa epoca di premiate delusioni. Non perdetevi l’estrema e definitiva occasione di farvi illudere da chi ha tratto piacere e guadagno dalle mancate promesse organizzate ai vostri danni, al medesimo fine. Non lasciatevi scappare questi meravigliosi burattini perché non è detto che ritornino e, nel malauguratocasoquasicerto lo facessero, non troverete più la stessa capacità inconcludente dei nostri presuntuosi Pupazzi. La Compagnia si scioglie e il nostro miglior Pupazzo-interprete, il burattino Walter il coraggioso, ha reciso i fili che muovevano lui e tutti gli altri Pupazzi e da consumato attore quale è stato, fugge a gambe di legno levate, verso il suo dorato deposito di Pupazzi Dinamici, per preparare l’inceneritore di quanti, e sono molti, lo seguiranno. Affrettatevi, Siori, che lo spettacolo è già terminato e molti ne saranno esclusi, perdendosi per sempre l’entusiasmante suicidio del P.D. che tutti stavano aspettando. La Compagnia dei Pupazzi Dinamici vi offrirà, Siori, le mirabolanti presunzioni del burattino Massimo il traditore, pianificate per contendersi gli avanzi ormai decomposti del P.D. con i suoi più fidati nemici. Scoprirete quali trappole sono già state disposte per acciuffare il segaligno burattino Piero l’inutile ed il Pupazzo Francesco il beota, dalla ineguagliabile testa vuota; quali mille astuzie puerili si stanno preparando per poter dare un ruolo definitivo al capo delle comparse di Compagnia e Questore di scena Antonio l’incomprensibile, Pupazzo fondatore della cooperativa I.D.V. Idioti Dinamici Vendicatori. Accorrete numerosi Siori, che il nuovo capo comico, il provvisorio Dario il proto-democristiano, sta per dare vita a un nuovo spettacolo già destinato a rimanere, nella storia della Repubblica dei Pupazzi, come un ultimo ed inutile tentativo di poter rappresentare i loro Automi Votanti nei teatrini della nazione. Venghino. Venghino, Siore e Siori a vedere i nostri Pupazzi Dinamici e potrete dire, finalmente soddisfatti: < Questo spettacolo l’ho scelto, l’ho pagato e ho vomitato. Maledetti Pupazzi Dinamici, io vi ringrazio. >. Venghino, Siori, venghino, chiedete pure di me, il produttore di Baracca e Burattini, e i nostri soci vi faranno ottenere poltrone coperte, posti in prima fila e pop corn a volontà. Chiedete di S.B. e io che sono unico, l’inimitabile, l’invincibile, Super Burattinaio, vi riserverò dei fili personalizzati e gratuiti che tutti vorrebbero avere. Venghino, Siori, venghino…”.

Maurizio Mura

domenica 22 febbraio 2009

Diritti e Dritti


All’articolo numero 1 la costituzione italiana “recita” così: < L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.> Almeno sulla carta.
Però un appunto ai “padri” fondatori della costituzione sarebbe il caso di farlo. Perché l’aleatorietà di questo articolo, così fondamentale in una sana ed onesta Repubblica, stride nettamente con la manifesta impossibilità del nostro territorio di produrre e garantire occupazione ai suoi cittadini. E’ inquietante pensare che si possa legiferare a favore di tematiche socialmente giuste ma dall’attuazione difficoltosa, se non assolutamente irrealizzabile. Da apprezzare certo il tentativo di spingere propositivamente la nuova “democrazia”, nata sulle ceneri fumanti della dittatura, verso la cultura del diritto e del rispetto dell’umanità tutta. Almeno sulla carta. Già, perché se l’istruzione del diritto è stata imposta “democraticamente” ai nostri padri, così non è avvenuto purtroppo nell’insegnamento del rispetto dei doveri, lasciato “democraticamente” all’onestà dei singoli cittadini-lavoratori che, memori dei loro trascorsi fascisti, hanno continuato e continuano ancora a farsi beffe di quell’onestà morale non contemplata dalla nostra giovane ma già preistorica costituzione. Eppure le regole che abbiamo voluto erano e sono tutt’ora valide, anche se difficilmente applicabili, e gli strumenti di tutela messi a disposizione del popolo dagli illuminati ma romantici costituzionalisti, presto si sono rivoltati contro lo stesso popolo, penalizzando di fatto chi di quella costituzione s’era creduto beneficiario. Il tutto almeno sulla carta. Difatti, per poter essere perseveranti fino in fondo, uno di questi strumenti a doppio taglio è il famigerato e mai troppo compreso “diritto di sciopero”.
Perché all’articolo 40 troviamo scritto così: < Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano.> Sempre sulla carta.
Ora, senza voler tediare nessuno, me compreso, in azzardate considerazioni sulla validità di queste italiche regolamentazioni, almeno una breve riflessione sulla gestione “democratica” di questi diritti dei presunti lavoratori, sarebbe il caso di farla, anche solo per tentare di resuscitare in noi neuroni prematuramente scomparsi. Da numerose stime precedenti, l’ultima a luglio 2008, risulterebbero essere il 37,1 % i dipendenti pubblici che, così come cita la costituzione, non < svolgono secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.> Quantomeno sulla carta. Poniamo ora in essere l’ipotesi che queste valutazioni statistiche abbiano una validità reale, a mio avviso per difetto, mettiamo pure che il pessimismo dei realisti e la faziosità degli analisti di settore strumentalizzino la libertà dell’opinione pubblica nel giudicare il malcostume che, ormai radicato, attanaglia la nostra Nazione, insomma valutando ogni presunta responsabilità dei presunti parassiti dell’amministrazione pubblica, non vogliamo e non dobbiamo dimenticare che, accettando a priori queste indagini, il 62,9 % dei dipendenti riconducibili allo Stato, a mio avviso per eccesso, svolge il proprio lavoro con presunta coscienza. Quindi sulla carta. Ma rivolgendo lo sguardo verso i diritti, un anomalia istituzionale evidente non dovrebbe passare inosservata. Difatti, sottolineando questa campanilistica incongruenza, verrebbe spontaneo domandarsi il perché uno Stato dovrebbe dare il diritto di sciopero a dei lavoratori che non svolgono il proprio lavoro. E’ come dare un premio a chi non ha partecipato, una medaglia al valore militare a chi non ha combattuto, una cattedra a chi non ha studiato, la patente a chi non ha guidato e potrei continuare all’infinito se mi guardo intorno. D'altronde è normale aspettarsi numerosi paradossi sociali se anche l’impianto sindacale è rivolto solo ed esclusivamente nella difesa dei loro pagatori associati, senza minimamente porsi la causa morale di tutelare e pretendere prima il rispetto dei doveri di chi “lavora”, indipendentemente dal beneficio che l’organo associativo ne ricavi. Ed è qui che il paradosso si compie in tutta la sua stravagante bellezza moderna. Lo Stato fornisce ai cittadini lo strumento dei diritti che verranno sistematicamente utilizzati contro lo Stato, a volte anche dallo Stato stesso. Perdonate lo scioglilingua. Ricapitolando, stiamo vivendo in una Nazione in cui tutto lotta contro la Nazione, con leggi inattuabili, con diritti incontrollabili, con l’ignoranza dei doveri civili, con l’abbandono delle educazioni sociali, con l’inconsistenza degli organi politici e basta, che se no. Viviamo sotto la minaccia di continui scioperi della sanità! della scuola! dei trasporti! degli aerei! dei ricercatori! gli anestesisti!! delle poste!!! Ma abbiamo i nostri diritti e sappiamo che è giusto. Sappiamo che noi difendiamo i nostri diritti. E poi sappiamo che se andiamo all’ospedale troveremo il rispetto dei nostri diritti, anche perché ci lavora un’amica mia, e che se andiamo a scuola troveremo il rispetto dei nostri diritti in un ambiente adatto all’istruzione, tanto ci lavora mio padre da una vita, e se prendiamo i mezzi pubblici troveremo il rispetto dei nostri diritti respirando meglio ed arrivando puntuali e rilassati, anche perché mio cugino che guida la metropolitana mi fa entrare in cabina, e se prendiamo l’Alitalia troveremo il rispetto dei nostri diritti volando meglio che nelle altre compagnie perché i piloti sono i più pagati, avevo fatto una richiesta di assunzione ma non me lo potevo permettere, e se andiamo dai sindacati troveremo il rispetto dei nostri diritti e una pronta disponibilità ad intervenire, tanto pago tutti gli anni la tessera associativa, e se andiamo... Ma dove diavolo andiamo?! Tanto è tutto sulla carta. Una carta che è la più importante del gioco costituzionale che ci unisce, almeno sulla carta, che ognuno di noi possiede e che appena può è pronto a rinnegare. Si può anche manifestare o scioperare contro questo o contro quella, è un diritto, ma solo nei giorni feriali e se non piove; si può scendere in piazza tutti uniti per la pace e magari tirare anche qualche molotov se è nei giorni pagati e ci uniamo agli studenti che non sono andati a scuola, e siamo pronti a mettere l’embargo per i paesi aggressori se la guerra non viene di natale o capodanno o ancor peggio alla befana che ci sono i regali. Presto saremo pronti, pronti ad abbandonare l’articolo 1 per usufruire dell’articolo 40 per difendere quelle popolazioni che non sono fortunate come noi che possiamo sempre nasconderci dietro i nostri diritti. Faremo barricate per difendere i diritti di tutti, e magari pure di Totti, purché però non ci sia di mezzo una partita, una domenica, una festività. Presto. Appena tornerà il seme malefico del dovere a battere sulla nostra coscienza useremo il Jolly dei nostri diritti, cosicché da lavoratori ci si trasformeremo in dritti.
Ma solo sulla carta.


Maurizio Mura